Prosegui lungo via Macrino fino a quando, sulla sinistra, troverai una piccola via, un vicolo. Vicolo Macrino, appunto. Osserva: non un negozio, poche luci, nessuna vetrina, nessuna insegna. Il vicolo per eccellenza. Qui, forse ancor più che nella via di poco prima, possiamo capire ancora oggi quale poteva essere la condizione di vita degli abitanti di queste case nella prima metà del Novecento. Un vicolo, appunto, è il luogo malfamato per eccellenza. Vicolo Macrino era celebre per la sua condizione difficile, densa di miseria, i postumi della Malora fenogliana. Eppure, a sentire le parole dei protagonisti della nostra storia, la vita nel vicolo era lieta e serena, seppur povera e fatta di niente. Una vita dignitosa, anche se difficile; misera di soldi e di fortune, non di affetti e di solidarietà.
“Ricordo che quando mio papà ha dovuto lasciare la casa di via Acqui dove abitavamo prima, avendo quattro figli e il cavallo da alloggiare, non riusciva a trovare chi gli affittasse una casa confacente, e perciò decise di comprare la porzione di casa nel cortile di vicolo Macrino dove, oltre all’abitazione, c’era posto per una piccola stalla, il fienile soprastante, il ricovero dei carri e un pozzo d’acqua utile per il servizio al cavallo. In casa non c’era ancora l’impianto di potabile e fummo costretti per un po’ di tempo ad andare a prenderla con il secchiello dai vicini”.
“In quel periodo nella via e nel vicolo Macrino abitavano molte persone e famiglie di estrazione sociale umile, spesso senza lavoro fisso, che si dovevano arrangiare a vivere con i mezzi più svariati. Ricordo che alcuni dei fratelli Gallo, il papà Giacosa e altri vivevano soprattutto di pesca nel Tanaro e cattura di rane nei fossi lungo gli argini facendone regolare commercio. Era un uso molto diffuso quello di pescare in Tanaro. Uno dei più famosi era Mentìn, pescatore professionista. Verso sera, finito il lavoro, in bicicletta a canna in spalla si tornava a casa. Altri, invece, coltivando qualche piccolo orto, oppure facendo lavori saltuari. Tutti poi vennero assunti alla Ferrero, grazie anche all’interessamento del canonico don Basso, parroco di San Giovanni. Vennero a stabilirsi qui anche i primi emigrati dal meridione, di cui ricordo che la maggioranza facevano i calzolai”.
“Via Macrino e via Vida erano due vie in cui si era concentrata una certa quota di disagio sociale. Tutti italiani, molti meridionali. Tutta povera gente. Poi hanno cominciato a stare bene perché quasi tutti, negli anni ’60 hanno iniziato ad andare in Ferrero. Posso dire questo: nei cortili vivevano persone che facevano mestieri di ogni tipo, anche attività sommerse di vario tipo. Alcune facevano i piaceri, non so se mi spiego: ricordo ancora oggi un signore che si sbagliò, cercava una “signorina che faceva i piaceri”, ma bussò a un’anziana signora chiedendole se fosse lei la signorina, provocandole grande scandalo e indignazione. Ma a parte questi aneddoti era tutta brava gente, non c’era nessun pericolo a camminare liberamente anche di notte. Nessun tipo di violenza. Solo gente che si aggiustava”. E prosegue: “Ci sentivamo sicuri. Mai visto arrivare i Carabinieri. Andavamo a ballare di sera, io e la mia amica, tornavamo senza nessun tipo di problema. In quegli anni poi c’era il prete che aveva un ruolo sociale importante: li salvava lui, li indirizzava sulla giusta strada”.